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I Magnifici Moghul – Horse Power XIII Viaggio nell’India medievale

Come nella Firenze rinascimentale di Lorenzo de’ Medici, la dinastia che regnò sull’India per oltre due secoli ebbe sovrani illuminati. Dopo Babur, discendente di Tamerlano e Gengis Khan fondatore della stirpe, anche Akbar e Shah Jahan furono guerrieri, abili politici e mecenati

Passo Khyber, confine tra Afghanistan e Pakistan.Le fiaccole illuminavano di una luce spettrale il campo e sotto la tenda del capo si agitavano delle ombre. Ma non erano fantasmi, erano uomini, e il loro condottiero, quello conosciuto come Babur, “la Tigre”, era l’unico che non si agitava intorno a quel fuoco.  Il Consiglio di guerra, l’ultimo prima che l’indomani i discendenti dei Mongoli facessero irruzione nelle pianure dell’India, era particolarmente agitato. Si temeva lo scontro con il sovrano di Delhi, l’usurpatore afghano Ibrahim Lodi. Si temeva il suo smisurato esercito, i suoi cento elefanti, la conoscenza del territorio. Dopo che ebbe fatto sfogare i suoi generali, la Tigre prese la parola: “Calma fratelli, calma. Parlate del nemico come fosse invincibile, parlate di numeri, di uomini, di animali, di elefanti e di soldati. Ma non siamo al tempo di Alessandro il Grande, il mondo è cambiato, la guerra è cambiata. Avrà sempre importanza il cuore, il coraggio, l’onore. Ma le forze si misurano in modo diverso, e ve ne accorgerete presto”. “Eccellentissimo– lo interruppe uno dei suoi generali – abbiamo un rapporto d’inferiorità di quattro a uno, attaccare in campo aperto è un’imprudenza”.Babur lo guardò negli occhi e mise la mano nella tasca degli ampi calzoni di seta rossa, tirandone fuori un sacchetto. Lo soppesò e lo sbatté sul tavolo con forza, facendo sobbalzare i presenti. “Questo andrebbe contato – mormorò– quanta polvere da sparo e quante palle da moschetto abbiamo in più dei nostri nemici? Quanti cannoni, quanti archi, quante frecce? La morte arriva volando adesso, non è più ferro contro ferro, occhi negli occhi, adesso sono il fuoco e il ferro a dare la morte, a dare il dolore, a dare la paura, agli uomini come alle bestie, e lo fanno da molto lontano, e la morte non si vede arrivare.” “E’ tempo di una nuova guerra, e saremo noi a cominciarla– guardò i presenti ad uno a uno con i suoi occhi neri come l’inferno – e a vincerla”.     

Il contesto storico: l’Impero Moghul

Dopo le conquiste di Babur e la vittoria nella battaglia di Panipat, l’India era nelle mani dei Moghul. Alla morte di Babur, però, il potere passò nelle mani di uno dei suoi  figli, Humayan, che venne spodestato temporaneamente a favore di un condottiero afghano, Sher Shah Suri, soprannominato Sher Khan (Re Tigre), grande guerriero, che scacciò i Moghul e fondò il breve regno Pashtun di Suri (1540-1555), fino al ritorno di Humayan. Dopo un periodo di disordini, il figlio di Humayan, Akbar il Grande (1542-1605), prese il potere. Sotto la sua guida il regno Moghul conobbe la massima espansione al prezzo di sanguinose conquiste, spingendo i confini dell’Impero da tutta l’India del nord fino a metà della penisola del Deccan. Akbar fu anche molto efficiente nella rigida organizzazione dell’amministrazione, delle finanze, del sistema fiscale e dell’esercito che rimase sotto il suo diretto comando. Anche l’arte e la scienza godettero del suo sostegno. Per i molti popoli dell’India, tra loro diversi, non fu istituita una cultura esclusivamente islamica ma cosmopolita, che sviluppò uno stile indo-islamico anche nella pittura, nella musica, nella letteratura e nell’architettura. Così come fu messa in pratica l’eguaglianza delle varie religioni, caratterizzata anche da interscambi culturali e teologici cui parteciparono anche missionari e teologi cristiani. Solo con la salita al trono di Shah Jahan, il costruttore del Taj Mahal, si propendette più verso una prevalenza della legge islamica. Sotto il regno di Aurangzeb (1658-1707) la dinastia Moghul raggiunse la sua massima espansione territoriale ma andò anche incontro a una grave crisi economica. Aurangzeb intravide la salvezza nella rigida adesione a una disciplina regolata dalla legge coranica, ma la contemporanea crescita di un regno parallelo a matrice indù, quallo dei Maratha, fece esplodere l’intolleranza religiosa. Aurangzeb proibì agli indù di assistere alle funzioni pubbliche vietò l’alcol, i giochi, la prostituzione e persino la musica a corte, ma soprattutto ordinò la distruzione di tutti i templi indù della regione. Il regno Moghul, un tempo splendido, proprio per la sua tolleranza e apertura culturale, divenne improvvisamente retrogrado e presto si sbriciolò in numerosi regni feudali. Le forze coloniali europee si stavano preparando a sottomettere l’India. Dopo i Portoghesi nel XVI secolo e gli Olandesi nel XVII secolo, arrivarono i Francesi e soprattutto gli Inglesi. Con la salita al trono britannico della regina Vittoria, l’India venne invasa da un gran numero di missionari anglicani e calvinisti, e le pratiche religiose islamiche e induiste fornirono il pretesto per spietate repressioni. Nel 1857 esplose all’improvviso una generalizzata rivolta che in pochi giorni eliminò tutti gli inglesi residenti in India, a opera dei Cipays, i soldati musulmani indù che servivano nelle forze armate della Compagnia delle Indie. La rivolta fu repressa dai britannici con inimmaginabile ferocia, ma l’India ritrovò una sua momentanea disperata ed eroica unità: richiamato sul trono Bahadur Shah II, l’ultimo imperatore Moghul, organizzarono una resistenza accanita in ogni singola città e in ogni più piccolo villaggio. La capitale Delhi resistette con eroismo a un prolungato assedio e a un massiccio bombardamento di artiglieria, ma per conquistarla i britannici dovettero praticamente raderla al suolo. La repressione provocò circa un milione di morti e la fine dell’ultimo discendente dei Moghul.

Babur, la “Tigre”

Il suo vero nome era Zahir ud Din Muhammad (1483-1530), ma la leggenda vuole che si facesse chiamare Babur (la Tigre) perché per i suoi sudditi il suo vero nome fosse troppo difficile da pronunciare. Discendente di Tamerlano, il fondatore del grande impero Mongolo, da parte di padre, era a sua volta anche discendente di Gengis Khan da parte di madre. Una tale linea di ascendenza non poteva che segnare il suo destino e così fu. Figlio del governatore di Fergana, presto esiliato e costretto a combattere con un esercito personale sempre più grande, fu sconfitto e cacciato da Samarcanda nel 1501. Decise quindi di rivolgere la sua attenzione a Est, conquistando Kabul con una marcia oltre le montagne dell’Hindu Kush assai simile all’impresa di Annibale sulle Alpi, avvenuta diciassette secoli prima. Dopo la conquista di Bukhara guidò il suo eterogeneo esercito – formato da persiani, arabi, mongoli, turchi, uzbeki e iraniani – alla conquista dell’India attraverso la battaglia di Panipat. Tattico raffinatissimo, entra di diritto tra i condottieri più abili dell’intera Storia dell’umanità. Introdusse l’uso dell’artiglieria come arma decisiva per il supporto campale, affrancandola dal ruolo di arma esclusivamente usata per gli assedi; dotò di moschetti all’avanguardia le sue truppe e fece della Cavalleria l‘arma di punta.  Conquistò il Regno dell’India settentrionale, fondando la dinastia nota come dei Gran Moghul, vale a dire dei Grandi Mongoli, che vi avrebbe regnato per due secoli.

Panipat, il trionfo di Babur

La prima battaglia di Panipat avvenne il 21 aprile 1526 e vide la vittoria di Babur con un’armata di 25 mila effettivi contro l’esercito del sovrano dell’India settentrionale, l’Afghano Ibrahim Lodi. Un capolavoro tattico di Babur, il quale, conscio della superiorità numerica degli avversari in campo aperto, pose in atto opere tipiche del corpo dei Genieri per “adattare” il campo di battaglia, restringendolo artificialmente con la realizzazione di palizzate e altri ostacoli che servissero a circoscrivere a imbuto il fronte nemico e ne rallentassero l’avanzata. Schierò quindi le sue truppe secondo una consuetudine del tempo, con l’ala sinistra più debole e con il centro pronto ad evoluire verso destra, in modo da attirare gli attaccanti in un cuneo mortale. Il cedimento del fronte sinistro dei Mongoli, ampiamente previsto da Babur e il suo conseguente lento arretramento, portò ben presto a un rallentamento dell’avanzata indiana, sufficiente perché l’azione combinata dell’artiglieria e degli archi a lunga gittata mongoli facesse una strage nello schieramento nemico ormai quasi immobile. A questo punto Babur ordinò all’ala destra e alla Cavalleria di attaccare ad arco chiudendo gli avversari in una sacca, all’interno della quale furono letteralmente massacrati. Le cronache parlano di oltre ventimila morti tra cui lo stesso sultano Ibrahim Lodi.

L’ultima battaglia: l’assedio di Delhi

Nel 1857 l’India fu teatro di una rivolta senza precedenti, innescata dalle truppe Sepoy, soldati indiani inquadrati nell’esercito della Compagnia delle Indie Orientali. La scintilla era stata causata dall’introduzione di un nuovo fucile in dotazione l’Enfield, le cui cartucce, sensibili all’umidità, erano avvolte in un involucro di carta oleata che il soldato doveva strappare con i denti, prima di introdurlo nella canna e utilizzare la stessa carta come stoppa. Si sparse la voce che il grasso che oleava la carte fosse di origine animale, anche se gli Inglesi si rifiutarono di indicare quale. Comunque, sia che si trattasse di grasso bovino o di maiale, questo era sufficiente per far gridare al sacrilegio rispettivamente la comunità indù e quella musulmana, che componevano in misura eguale i contingenti di Sepoy. Da qui la rivolta, durante la quale fu proclamato imperatore di tutta l’India Bahadur Shah II,  ultimo discendente dei Moghul, che viveva a Delhi in uno stato di libertà controllata. I Sepoy di Delhi massacrarono i contingenti inglesi in città e tutti i cristiani. La rivolta ebbe vita breve. Le truppe inglesi cinsero d’assedio Delhi – dal primo luglio al 14 settembre 1857 – con ogni mezzo disponibile e la martellarono con le artiglierie. Sebbene il loro comandante, il generale Nicholson fosse caduto nell’assalto finale dopo la breccia della Porta Kashmir, gli Inglesi conquistarono la città e presero prigioniero l’ultimo sovrano, dopo aver ucciso tutti i suoi figli. La dinastia Moghul era finita.

Shah Jahan

Shah Jahan (1592-1666), chiamato anche Principe Khurram, terzo figlio dell’imperatore Mughal Jahangir, salì al trono dell’impero Moghul nel 1628. Mediocre guerriero e politico, fu invece uno straordinario mecenate. La sua corte è stata tra quelle di maggior splendore di tutti i tempi, e la sua collezione di gioielli è stata probabilmente la più bella del mondo. E’ passato alla storia per le meravigliose costruzioni fatte realizzare durante il suo regno: la Moti Masjid(Moschea Perla) di Agra e la Jama Masjid(Grande Moschea) di Delhi e, soprattutto, il superbo mausoleo Taj Mahal, capolavoro eretto in memoria della favorita Mumtaz Mahal (la madre di Aurangzeb), morta dando alla luce il suo 14° figlio. A Delhi, Shah Jahan costruì anche un enorme palazzo-fortezza chiamato Lal Qil’ah(Forte Rosso). Le sue guerre di conquista, invece, furono disastri militari e politici, tanto da ridurre l’estensione del regno, anche con la dolorosa perdita di Kandahar. Nel settembre 1657 Shah Jahan si ammalò, e il suo regno precipitò in una feroce lotta per la successione tra i suoi quattro figli. Il vincitore, Aurangzeb, si dichiarò imperatore nel 1658 e confinò il padre nel Forte di Agra (Lal Qila) fino alla sua morte.

I cavalli Turcmeni e Karabair

Cavalli alti, con il collo lungo, magro e flessibile, gli occhi grandi e intelligenti di taglio orientale, una testa aggraziata forgiata nitidamente, arti esili e forti. La groppa è leggermente obliqua, la coda è attaccata bassa e insieme alla criniera può essere rada. Il mantello è costituito da peli cortissimi e da una pelle sottile che mettono in evidenza i riflessi metallici che variano dai dorati, argentei o bronzei. Il segreto della forza dell’esercito Moghul era tutto nei cavalli della straordinaria razza Turcmena, una fra le più antiche e nobili mai esistite. In battaglia addobbati con finimenti eleganti, colorati e addirittura con gioielli. Veloci e valorosi si adattavano perfettamente alle magnifiche qualità equestri dei loro cavalieri, a loro volta coraggiosi e abilissimi. La caratteristica esuberanza della razza ne fece un cavallo coraggioso e affidabile con scatto e resistenza, adatto alle imprese militari. Da questa razza ebbe origine l’Akhal Tekè, il cavallo divino. I cavalli Karabair invece, hanno caratteristiche diverse ma non meno importanti nell’arte della guerra. Sicuramente meno eleganti nel portamento e nella struttura hanno un carattere sensibile, paziente e fedele. Sono resistenti al freddo e alle fatiche. La testa è di medie dimensioni con un profilo diritto, gli occhi grandi tendono a essere ravvicinati, le orecchie sono grandi e distanziate, il collo è breve e massiccio. La groppa è obliqua e un po’ allungata, il dorso ben dritto, il petto largo, la coda e la criniera poco folte, gli arti forti e gli zoccoli duri e ben solidi. Cavalli meno veloci ma inarrestabili per resistenza. Adatti alla soma, alla sella e al tiro leggero.
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Antonio Toullier
Horse Power


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